Cambogia. 2009-2014.
60 anni fa la Cambogia ha ottenuto l’indipendenza dalla Francia, poco dopo è stata disastrosamente risucchiata nel conflitto vietnamita.
Nel 1975 i Khmer Rouge hanno cacciato il governo fantoccio filo-americano ed è incominciato, nell’indifferenza del mondo, il loro esperimento sociale: 4 anni di genocido, circa 2 milioni di morti (su 8 milioni totali), nel folle tentativo di “purificare” la popolazione.
I Khmer Rouge, ufficialmente deposti nel 1979 da un intervento vietnamita, si sono ritirati nelle montagne al confine con la Thailandia da dove hanno continuato una sanguinosa guerra civile che si è protratta fino al XXI secolo.
Fino al 1991, nonstante tutto, i rappresentanti dei Khmer Rouge hanno comodamente occupato la poltrona alle Nazioni Unite, e ancora oggi, ex K.R., occupano cariche di rilievo nella politica cambogiana.
Tutto questo negli ultimi 60 anni, in poche parole.
Il presente in Cambogia è una dilatazione del regolare flusso temporale tra ieri e domani: la porta della guerra è appena stata chiusa e quella della modernità non è ancora stata aperta.
La vita è come sospesa tra le ferite del passato, non ancora rimarginate, e le timide aspettative per un futuro incerto, controllato da poteri torbidi e vissuto con pacata rassegnazione da un popoolo seduto in sala d’attesa.
Ho cercato di leggere questa attesa nel paesaggio, nell’ architettura, nell’uomo, e di restutirla con un ritratto lungo 4 anni, ampio, articolato e onesto, un documento che sarà caratterizzato dall’imperativo “è stato”.
Ho evitato ogni forma di spettacolarizzazione, nel tentativo di rendere una testimonianza ai posteri il più aderente possibile alla realtà. 4 anni di un presente in stand-by, prima che cambi tutto ma dove tutto, per tanti versi, è già cambiato.